Contabile, poi imbianchino, manovale, corriere, infine mediatore culturale. Aldayeb Ahmed Ali, 49 anni, somalo, ha vissuto più di una vita. «Chi è costretto a lasciare il proprio Paese sa che questo è il prezzo da pagare: si deve essere pronti a ricominciare da zero ed essere disposti a reinventarsi ogni volta di nuovo, sapendo che non è affatto detto che andrà bene», spiega.
A Mogadiscio, dopo il diploma come ragioniere, aveva trovato un posto prestigioso: un impiego nell’ufficio contabile della filiale somala della Italtel, il gruppo di telecomunicazioni italiano che ha costruito l’infrastruttura telefonica del paese del corno d’Africa. La sua esistenza sembrava incanalata su un binario sicuro. Invece nel ’91 il regime di Siad Barre venne rovesciato, scoppiò la guerra civile e la Somalia sprofondò in un baratro dal quale non è ancora uscita. «Come tanti miei colleghi persi il lavoro e non ne ritrovai più un altro – racconta Aldayeb –. Ma soprattutto tornammo a vivere come i nostri bisnonni. Non solo nei villaggi ma anche nelle capitale non avevamo più l’elettricità e l’acqua bisognava andare a prenderla al pozzo. Solo che con le milizie che scorrazzavano in giro, muoversi per strada, specie per le donne, era sempre un rischio: uscivi e non sapevi se saresti tornato, se te o qualcuno dei tuoi familiari sarebbe stato aggredito, violentato o ucciso. Non si poteva continuare a vivere così».
Verso la fine del 1991 Ahmed prese un volo per lo Yemen via Gibuti e poi dall’aeroporto di Sana’a un altro per Fiumicino. Aveva con sé il passaporto e un visto che riuscì ad ottenere perché all’epoca le frontiere italiane per i cittadini somali erano ancora aperte. Sbarcato a Roma, raggiunse Milano, dove viveva una delle sue sorelle che era emigrata anni prima. In Questura gli diedero dopo pochi giorni il permesso di soggiorno speciale che all’epoca l’Italia concedeva a somali e bosniaci. È da quel momento che inizia una nuova avventura. Le lezioni per perfezionare l’italiano, che aveva già studiato in Somalia e tanti mestieri differenti per potersi mantenere. «Accettavo qualsiasi lavoro pur di avere i soldi sufficienti a pagare l’affitto e il cibo. Non era quello che avevo sognavo di fare quando mi ero diplomato nel mio Paese ma sapevo che quel mondo non esisteva più ed era inutile starlo a rimpiangere», confida.
Poi l’occasione: un annuncio di lavoro come mediatore culturale, il colloquio coi responsabili della cooperativa Farsi Prossimo e l’assunzione. Oggi è uno dei punti di riferimento di Casa Suraya, un ex convento alle porte di Milano, intitolato ad una neonata siriana, figlia di una delle prime ospiti del centro.
«In questi ultimi anni mi è capitato di accogliere ragazzi siriani, ma anche yemeniti, somali, eritrei. In loro rivedo me stesso e penso con un certo sconforto che dopo tanti anni non è cambiato nulla in quei Paesi. Anzi la situazione è peggiorata e anche scappare e cercare un futuro migliore in Italia e in Europa è diventato addirittura più difficile e pericoloso. Mi dà però speranza la loro grande forza di volontà e faccio quello che posso per aiutarli nell’interesse loro, ma dopotutto, anche degli stessi italiani».
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