WHAT IS HOME: la storia di Arefeh

WHAT IS HOME: la storia di Arefeh

Pollo alle mandorle e zafferano. È la specialità di Arefeh Jahangirangbardan, 47 anni, cuoca al Refettorio Ambrosiano. Quando lo prepara, gli ospiti della mensa solidale della Caritas Ambrosiana chiedono solitamente il bis. Il segreto del successo, confida, è aver adattato la ricetta persiana, suo paese di origine, ai gusti italiani.

«Non è stato per nulla difficile. Iran e Italia sono più vicini di quanto si pensi. In tante cose compreso il cibo – assicura -. Gli alimenti di base della nostre cucine sono comuni. Quello che cambia sono le combinazioni e le proporzioni. Ma basta davvero poco per intendersi», sorride.

Arefeh è arrivata alla stazione Centrale di Milano il 10 gennaio 2015. «Una giornata di inverno gelida», ricorda. In teoria non avrebbe dovuto trovarsi lì. Il passatore che le aveva procurato il passaporto falso e aveva viaggiato con lei in aereo dall’Azerbaijan, stando ai patti, avrebbe dovuto accompagnarla fino a Londra. Invece atterrati all’aeroporto di Malpensa si era dileguato. «Non sapevo nemmeno dove fossi esattamente ma all’aeroporto ho visto che partivano dei treni per Milano. Sapevo che era una città importante, ne avevo sentito parlare molto nel mio paese, e così sono salita sul primo convoglio. Con il senno di poi, posso dire che è stato meglio così».

Anche nel capoluogo lombardo è sempre stato il caso (o per chi crede il destino) ad aiutare Arefeh. «Sono arrivata alla Centrale che era molto tardi. Così ho passato la notte sulle panchine – continua a raccontare –. La mattina ho sentito una ragazza che parlava persiano. Era una studentessa che frequentava il Politecnico e passava di lì per andare all’università. L’ho fermata e le ho raccontato tutto. Che a Teheran mi accusavano di essere una nemica della Rivoluzione, che la guardie erano venute a cercami a casa da mio padre dove vivevo e che solo per caso non mi avevano trovato, che allora avevo chiesto aiuto ad un cugino che viveva in Azerbaijan, quindi la mia disavventura con il passatore a Malpensa. La studentessa era un tipo sveglio, capì tutto e mi diede l’indirizzo della Questura. Lì raccontai di nuovo tutta la storia. Mi dissero che potevo fare domanda di asilo politico. E la feci».

In attesa che la commissione esaminasse la sua domanda, per un anno Arefeh ha vissuto in una comunità per richiedenti asilo insieme ad altre donne come lei provenienti da diverse parti del mondo. Nel frattempo ha imparato l’italiano e ha frequentato un corso per diventare cuoca.

«A Teheran lavoravo come assistente alla poltrona in uno studio dentistico. Ma avrei fatto qualunque mestiere pur di vivere al sicuro, libera dall’ansia di finire in carcere senza sapere nemmeno perché. Così quando mi hanno proposto di diventare cuoca, potete immaginare la mia felicità: la cucina era una mia grande passione e poterla trasformare in un lavoro sarebbe stato perfetto. Sono stata, poi, doppiamente contenta quando mi hanno proposto di farlo per aiutare chi è in difficoltà».

Oggi Arefeh ha un un impiego stabile, può permettersi di pagare un affitto ed è riuscita a fra arrivare in Italia il padre chiedendo per lui il ricongiungimento familiare. Il tempo libero lo passa con una famiglia che fa volontariato al Refettorio e con la quale ha legato.

«Sì, posso dire di essere stata fortunata. Ma è come per le ricette. I piatti migliori nascono quando si mescolano ingredienti che sembrano non poter stare assieme. Quando ci si prova, il caso o chi per lui, viene a dare una mano», assicura.  

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