«Ci sentiamo con WhatsApp tutte le sere, vuole sapere se ho mangiato, come sto, cosa ho fatto durante la giornata, se mi impegno sul lavoro». Mohamed Hamed, 19 anni, ha lasciato il suo paese, la Somalia, quando ne aveva 15. Da allora parla con sua madre solo tramite videochiamate. Il cellulare colma un’assenza dolorosa ma necessaria a scampare un pericolo maggiore.
Rimasta vedova, Aamiina ha preferito che anche l’ultimo dei suoi figli se ne andasse. Meglio lontano, in un altro Paese, che sepolto come tanti soldati ancora bambini, vittime di una guerra infinita che da 25 anni devasta il Paese. «Quando i militari sono venuti a cercami per arruolarmi, mia madre ha deciso che non c’era più tempo da perdere: mi ha messo i soldi in tasca e mi ha mandato da un amico di mio padre a Mogadiscio. Lui avrebbe saputo come fare, mi ha detto». È iniziato così il viaggio Mohamed. Una lunga e pericolosa fuga per scampare all’arruolamento degli jihadisti di Al Shabaab.
Prima il Kenya. Poi il Sud Sudan. E da lì in jeep attraverso il deserto fino alla Libia. «Alla frontiera il trafficante mi ha affidato ai libici. Loro mi hanno portato a Misurata e mi hanno detto di aspettare il mio turno: dà lì a pochi giorni mi avrebbero imbarcato su una nave che mi avrebbe portato in Europa. Sono passati due mesi. E per tutto quel tempo non sono mai potuto uscire dal magazzino sulla spiaggia, dove mi avevano messo. Una vera e propria prigione, con il filo spinato attorno e uomini armati che facevano la ronda», racconta.
Finalmente il giorno della partenza arriva. Ma le promesse non sono mantenute. Il gommone su cui è salito a bordo inizia a imbarcare acqua dopo poche ore di navigazione. Il motore va in avaria. «Eravamo in tanti sulla barca, c’erano le onde alte, abbiamo temuto tutti di annegare. Poi abbiamo visto in cielo un aereo e qualche ora dopo è arrivata una nave. Sul ponte ci hanno detto di essere volontari di una ong, non ricordo il nome. In ogni caso ci hanno portato in Sicilia ad Agrigento», spiega.
Nella città siciliana Mohamed fa domanda di asilo ed è trasferito a Milano, dove è accolto in un centro della cooperativa Farsi Prossimo legata alla Caritas Ambrosiana. La mattina segue le lezioni di italiano e nel pomeriggio dà una mano in cucina al Refettorio Ambrosiano, la mensa solidale del quartiere Greco di Milano. La sera ha un appuntamento fisso al telefono. Con la mamma. «Mi dice che le manco, che mi vorrebbe riabbracciare. Lo vorrei anch’io. Ma sappiamo entrambi che non è possibile e che è molto meglio che le cose siano andate così».

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